sabato 29 gennaio 2011

Sophie Scholl

Debbo confessare che a volte mi fa un po’ rabbia scoprire un bel film di cui non immaginavo l’esistenza. Ma l’altra sera sono stato immensamente felice quando, grazie ad una riuscita iniziativa organizzata nel mio paesello in occasione del Giorno della Memoria, ho scoperto un grande film ed ho anche riscoperto una straordinaria storia di cui tanto anni fa avevo letto e che poi avevo dimenticato. La Storia di una ragazzina tedesca di appena 21 anni che sfidò il regime nazista di Hitler e morì per questo.

Il film è “La rosa bianca” e racconta appunto la storia di Sophie Scholl, suo fratello Hans Scholl e del suo amico Cristoph Probst.  Sophie ed Hans furono arrestati per essere stati scoperti a distribuire volantini all’Università di Monaco. Cristoph fu in seguito identificato quale coautore del testo.
Furono arrestati il 18 Febbraio 1943 e furono uccisi pochissimi giorni dopo, il 22 febbraio. Solo per aver distribuito dei volantini.

La storia di questi tre giovani eroi non può non farci riflettere ancora una volta su quanto è accaduto nel cuore dell’Europa, nella civile Germania ed appena pochi decenni fa. Come è stato possibile ? Come può accadere che una Democrazia si suicidi ed un popolo si abbandoni ad un così tragico destino ?  Perché accadde ?
Probabilmente le risposte sono tante e tutte quante vere.
Accadde perché tanta gente credette alla propaganda.
Accadde perché tanta gente non sapeva.
Accadde perché tanta gente voleva semplicemente vivere tranquillamente la propria vita.
Accadde perché tanta gente era grata al Fuhrer che aveva portato ordine, fermato gli scioperi, arrestato l’iperinflazione.
Accadde perché tanta gente sapeva, aveva capito ma aveva paura.
Accadde perché tanta gente capì che si poteva vivere bene schierandosi dalla parte dei forti.

E non accadde solo in Germania. Accadde anche qui in Italia. Ed accadde ai nostri padri ed ai nostri nonni. E tanta brava ed onesta gente accettò Mussolini così come i Tedeschi accettarono Hitler. E solo pochissimi coraggiosi, perché occorreva davvero tanto coraggio, resistettero.
La nostra dittatura durò Vent’anni e solo grazie ad una guerra, un esercito invasore e il valore di pochi coraggiosi fummo liberati.
Ci fu riconsegnata la Democrazia che i Padri Fondatori vollero rafforzata da severi controlli ed efficaci contrappesi istituzionali. Affinchè quello che già una volta era avvenuto non si ripetesse più.

Purtroppo però la Storia non si ripete mai allo stesso modo e la drammatica vicenda di Sophie deve ricordarci che niente, assolutamente niente, può sottrarci all’obbligo di una costante vigilanza.

E bisogna essere vigili sin dall'inizio perchè quando si arriva ai processi sommari in quattro giorni è ormai troppo tardi.

giovedì 27 gennaio 2011

In America hanno un leader

In America hanno un leader che ha ben compreso che il mondo è cambiato, che purtroppo non si torna più indietro e che si può solo guardare avanti. Ed ha il coraggio di dirlo.

Obama's State of the Union remarks




In America hanno un leader che vede il suo paese in difficoltà. E non ha paura di rivelarlo.

In America hanno un leader che ha capito che le ricette del passato non funzionano più e ne servono di nuove. Sa bene che non sarà affatto facile e nemmeno indolore. E non lo nasconde alla sua gente.

In America hanno un leader che ha il coraggio di chiamare il suo popolo alla riscossa.

Se in Italia ci fosse stata una Sinistra così, Berlusconi sarebbe già fuori dai coglioni da almeno cinque anni.

sabato 22 gennaio 2011

Urgenza di Federalismo

Ma perché a Sinistra, in tutti questi anni, non si è mai seriamente parlato di Federalismo ?
Chi spesso si trova a viaggiare per lavoro lungo lo stivale scopre presto la bellezza e l’incredibile ricchezza e varietà del nostro paese. E’ una fantastica collezione di ambienti, climi, culture e storie così diverse da far apparire quasi assurdo che si tratti sempre della stessa nazione. Viaggiare da Palermo a Napoli, da Roma a Firenza, da Bologna a Milano, da Torino a Venezia, ed anche solo da Trento a Bolzano, è come attraversare tanti invisibili confini. Cambiano accenti e dialetti, la cucina e le tradizioni, i colori, i modi di fare e le abitudini. Cambiano addirittura le aziende e così cambiano gli enti pubblici. Diverso è il rapporto tra colleghi, con i superiori, con i clienti e con i fornitori; diverso è il rapporto tra cittadini ed amministratori.
Se la diversità è ricchezza, l’Italia è uno dei paesi più ricchi al mondo ed in effetti, anche se assolutamente sprovvisti di risorse naturali e costretti a dipendere quasi esclusivamente dall’estero, siamo stati benedetti in quanto a folclore, bellezze storiche, artistiche, culturali e naturali.
Ma la diversità può portare terribili sciagure quando non è solo varietà etnica, folcloristica e gastronomica ma anche differenza nei modelli di sviluppo, nella ricchezza pro-capite e nella sostenibilità economica di medio-lungo termine. La Storia ci insegna che è possibile tenere insieme una nazione solo se stabili, equilibrati e sostenibili sono i flussi e gli interscambi economici tra le sue parti.
In Italia per tanti anni questo non è accaduto. In realtà non è stato nemmeno necessario farlo. Per decenni siamo stati esonerati dal dover affrontare seriamente il problema delle differenze tra Nord e Sud in virtù degli equilibri geo-politici internazionali. Dopo il secondo conflitto mondiale siamo stati salvati prima dal boom economico e successivamente da un “salvacondotto monetario”. L’Italia si venne a trovare in una posizione strategica invidiabile, cerniera tra Ovest ed Est, al centro del Mediterraneo e con un forte partito comunista e per questo ci furono concesse dagli alleati periodiche e salutari svalutazioni della lira. Le aziende del nord furono capaci di svilupparsi all’estero mentre all’interno concedevano Scala Mobile e Contingenza; il Sud era utile serbatoio di manod’opera. In pratica svalutazioni ed inflazione garantivano competitività internazionale e pace sociale e, con il vantaggio di una moneta debole, ci si poteva permettere anche una spesa pubblica di maniche molto larghe. Era iniziata l’epoca di Pantalone.
Negli anni Ottanta il meccanismo va in ebollizione quando l’inflazione raggiunge percentuali insostenibili. Alla lunga dinamiche salariali automatiche ed aumento del prezzo del petrolio indeboliscono la competitività del paese. Le svalutazioni continuative non sono mai una soluzione quando si deve sia vendere che comprare all’estero. E’ proprio allora che l’inflazione uccide il futuro di una nazione.
Inizia una fase nuova in cui finalmente si riesce a bloccare la deriva inflazionistica, non senza sanguinose battaglie ideologiche a Sinistra; le svalutazioni non sono più desiderabili e ci sono concesse con maggior difficoltà. Di fronte al rallentamento della crescita la tranquillità sociale è adesso finanziata dal debito pubblico. L’intervento dello Stato deve crescere a dismisura soprattutto al Sud che non riesce più ad esportare mano d’opera in eccesso. E’ la terribile spirale che ci consegna l’Italia di oggi. Il premio Nobel per l’economia Paul Krugman ci insegna che “ci sono tre cose che chi si occupa di economia desidera per il proprio sistema economico. La prima è la discrezionalità nella politica monetaria, così da poter combattere le recessioni e ridurre l’inflazione. La seconda è tassi di cambio stabili, così che i mercati possano operare in un clima contraddistinto da una non eccessiva incertezza. La terza, infine, è la liberalizzazione degli scambi internazionali […]. Quello che ci insegna la storia del globo è che le nazioni non possono raggiungere contemporaneamente tutti e tre questi obiettivi: al massimo possono raggiungerne due”. E’ evidente che non volendo assolutamente rinchiudersi in un regime autarchico ed avendo scelto la stabilità dei cambi, si lasciavano i tassi di interesse in balia dei mercati. Un debito pubblico sempre più ampio poteva essere rifinanziato a tassi sempre più alti. Così facendo si scaricava sul futuro il peso del debito e contemporaneamente con alti tassi di interessi si inibiva la propensione agli investimenti delle aziende italiane e se ne uccideva la competitività.
A questo punto della storia l’“era di Pantalone” si è definitivamente chiusa. Contemporaneamente crolla il muro di Berlino e l’Italia si ritrova un po’ più periferia. Un sistema economico a due e più velocità non è più sostenibile né con l’inflazione, né con le svalutazioni e nemmeno con un super-indebitamento. E’ il momento di fare i conti e le alternative sono essenzialmente tre: un fallimento di tipo “argentino”, la disgregazione o una riaggregazione. Proprio in quegli anni esplode il fenomeno della Lega. E proprio in quegli anni la sempre fortunata Italia trova il suo ennesimo Jolly: Mastricht e l’Euro. Con grandi sacrifici e qualche artificio contabile entriamo nella moneta unica, ci assicuriamo stabilità finanziaria e monetaria e guadagnamo tempo prezioso per riportare sotto controllo il debito pubblico, recuperare efficienza nell’amministrazione centrale, e in quelle periferiche, e soprattutto recuperare il differenziale di competitività tra Nord e Sud.
Ci siamo salvati ma non siamo completamente al sicuro. Siamo costretti a mettere ordine nei conti e rispettare gli stringenti obblighi comunitari.
Purtroppo questo tempo prezioso è andato totalmente sprecato. Anche la Sinistra quando ha governato è stata assolutamente incapace di riconoscere la centralità della questione del Federalismo. Non si tratta solo di riconoscere le istanze di “autogoverno” del popolo della Padania. E’ molto di più. Significa introdurre elementi di efficienza, di responsabile amministrazione e controllo locale nei meccanismi della Spesa Pubblica, che abbiamo appena visto storicamente inclini allo spreco. In un sistema-Nazione che ha definitivamente perso il controllo della leva dell’indebitamento, che deve ancora recuperare un significativo gap di competitività nel settore privato - ma soprattutto pubblico - e che deve finalmente correggere gli squilibri tra le sue aree di eccellenza e di arretratezza, la risposta più efficace non può che essere una profonda riforma in senso federale.
E sarebbe un bene innanzitutto per il Sud la cui malattia è stata solo aggravata da un assistenzialismo “a pioggia”. Federalismo fiscale e piena autonomia di spesa responsabilizzerebbero maggiormente proprio le classi politiche e gli stessi elettori meridionali; permetterebbero di sperimentare ed individuare soluzioni locali ai problemi locali, dalle politiche occupazionali alla sanità, da scuola e ricerca alla salvaguardia dell’ambiente. Complessivamente aiuterebbero in maniera molto più efficace a mantenere i conti dello Stato sotto controllo. Un Sud che ha paura del Federalismo è un Sud che ha paura di se stesso.
La spinta centrifuga della Lega è stata solo temporaneamente ibernata dal Berlusconismo. Quando questa fase si sarà chiusa, è destinata a riesplodere in forme ancora più gravi se fin a quel momento non si saranno fatti passi in avanti.
Chi si auspica che l’autonomismo padano sia un fenomeno passeggero sottovaluta le fratture economiche e sociali che percorrono la nostra penisola. Se vogliamo salvaguardare nel lungo periodo l’Unità Nazionale, abbiamo assolutamente bisogno di una riforma in senso modernamente federale dello Stato. Una riforma che trasferisca importanti responsabilità di gestione amministrativa alle Regioni pur mantenendo un altrettanto forte potere centrale di controllo, coordinamento e riequilibrio.

Ed allora ripeto: perché a Sinistra, in tutti questi anni, non si è mai seriamente parlato di Federalismo ?

martedì 18 gennaio 2011

Ci risiamo

Siamo alle solite e purtroppo ancora stamane sentivo autorevoli esponenti del PDL affermare che il Governo ha i numeri per continuare, la maggioranza si sta allargando, ed è in gioco la stabilità e l'immagine del paese.
E' assolutamente incredibile. Piuttosto che continuare questa lenta, lunga e dolorosa (per il paese) agonia, che Berlusconi getti la spugna e si vada il prima possibile alle elezioni.
Penso che la gran parte degli italiani voglia un Presidente del Consiglio che la notte dorma e la mattina sia pronto e vispo per pensare ai problemi di un Italia ferma da 15 anni. Non ci meritiamo un vecchio stanco, assonnato, preoccupato da mille problemi personali e con un' immagine ormai definitivamente rovinata sia in Italia che all’Estero.


In qualsiasi altro paese civile e democratico sarebbe l’ora delle dimissioni.
In qualsiasi altro paese ma non in Italia dove invece il Ministro della Giustizia in persona va in televisione a condannare un abuso sproporzionato di risorse ed intercettazioni, a discutere della competenza delle indagini e della legittimità dei capi d’accusa.
In qualsiasi altro paese ma non in Italia dove l’onorevole Cicchitto denuncia la persecuzione mediatica proprio di colui che è il monopolista assoluto dei mezzi di informazione.
In qualsiasi altro paese ma non in Italia dove l’onorevole Ghedini, avvocato dell’imputato, è già all’opera per studiare le più opportune contromisure giudiziarie e, se non bastasse, legislative.
Purtroppo in qualsiasi altro paese ma non in Italia dove il padre di una ventiseienne, individuata come probabile compagna segreta del Premier, risponde ai cronisti: “Magari fosse”.

Nelle grandi democrazie occidentali tutto questo non sarebbe tollerabile.
Dopo la seconda guerra mondiale gli inglesi decisero di fare a meno di Winston Churchill. Più tardi Margaret Thatcher alla prima sconfitta elettorale rassegnò le dimissioni e lasciò campo libero ad una nuova generazione. E Tony Blair addirittura abbandonò da Primo Ministro in carica, vincitore delle elezioni ed in pieno controllo del suo governo, perché si era ormai esaurito un ciclo ed era tempo di fare altro.
In Francia persino Charles De Gaulle capì di aver concluso un percorso glorioso e sconfitto in un Referendum si dimise.
Invece c’è qualcuno che vorrebbe convincerci che in Italia non si può fare a meno di Berlusconi. Nonostante i suoi comportamenti, nonostante la debolezza della sua maggioranza parlamentare e nonostante le tante promesse non mantenute in quasi 15 anni ininterrotti di regno.
E di questo forse dovremmo addirittura rallegrarci. La Destra italiana è messa davvero male se, ancora oggi, non è in grado di proporre alcuna seria ed autorevole alternativa a Berlusconi.

Ma è anche ora di porre termine a questa guerra al massacro.
Non ci interessa vedere Berlusconi processato e condannato; non ci interessa l’esito delle vicende giudiziarie; non ci interessa se i comportamenti di Berlusconi siano assimilabili a reati; non ci interessa se abbia pagato delle prostitute o se sia stato di nuovo solo un utilizzatore finale. Ci interessa solo liberarci di questo enorme peso.
Chiediamo, gridiamo, urliamo e reclamiamo elezioni anticipate.
Il ricorso alle urne non deve essere usato come spauracchio ma è la forma più alta di Democrazia.
C'è un Italia che ha ancora fiducia in Berlusconi ? Sarà compito dei partiti guadagnarsi il consenso spiegando alla gente i propri programmi, le proprie idee, progetti e sogni.
Vogliamo finalmente un paese normale.

sabato 15 gennaio 2011

Considerazioni sulla procreazione assistita

Stavolta non voglio parlare di Politica e mi concedo un "break". Ogni tanto mi capita di partecipare come opinionista alla Webradio di mio fratello. Si parla sempre di temi un pò particolari e stavolta si commentava un intervento del filosofo Galimberti sulla procreazione assistita.
E mi piaceva condividere anche qui il mio intervento.

"Gli intrecci tra Scienza e Senso Morale sono sempre più complessi e ci inducono sempre più spesso a mettere in dubbio le nostre certezze, i nostri ideali e talvolta i nostri preconcetti.

Ma stavolta mi sembra che ci si limiti a parlare di procreazione assistita per quelle donne che diciamo sono “un po’ avanti con gli anni” e non potrebbero più “naturalmente”. Questo rende tutto molto più semplice in quanto semplicemente mi domando: perché impedirla ? E c’è davvero qualcuno che vorrebbe impedirla ? E perché mai ?

Giustamente nel tuo spunto di questa settimana si legge che la natura prevede di procreare ottimamente tra i 15 ed i 30 anni. Anzi aggiungo che la Natura per noi ha anche introdotto un meccanismo molto speciale e raro (la menopausa). Ed allora è davvero lecito chiedersi il perché ?
Dobbiamo ricordare che tutti i nostri meccanismi fisiologici sono stati tarati da diverse centinaia di anni di evoluzione che i nostri antenati hanno trascorso in un ambiente primordiale molto più ostico del nostro. Ci siamo sviluppati come specie intelligenti, sociali ed abili grazie ad un cervello fuori dalla norma (in proporzione al resto del corpo). Tutto ovviamente ha un prezzo e quindi nasciamo, a differenza delle altre specie, tutti “prematuri”. Ed abbiamo fisiologicamente (non sto parlando dei moderni “bamboccioni”) bisogno delle nostre madri per un lungo periodo rapportato alla nostra intera esistenza. Inoltre nasciamo comunque con un bel cranio ed il parto umano è tra i più a rischio in natura. I fattori di rischio ovviamente aumentano con l’età.
E’ chiaro che le madri che tendevano a procreare in età di avanzata maturatà avevano ovviamente un rischio significativo e molto maggiore di morire, durante il parto o anche successivamente. E questo significava pregiudicare la sopravvivenza anche di tutti gli altri figli ancora piccoli (nella crudele savana preistorica non c’erano orfanatrofi e chiese). Quelle madri che andavano più presto in menopausa avevano molto ridotto quel rischio e gli stessi pargoletti avevano maggiori probabilità di sopravvivenza e quindi di diffusione del proprio corredo genetico. Ecco che “naturalmente” l’evoluzione, lavorando su migliaia e migliaia di generazioni,  ha sviluppato meccanismi di controllo.

Quando parliamo di Leggi di Natura è di questo che parliamo. Non sono le leggi della Meccanica o della Termodinamica. Non sono immutabili. Non sono eterne.
Oggi il nostro habitat naturale è molto diverso dalla savana di 300.000 anni fa. Ed anche dalle campagne di 300 anni fa dove perdere la madre quando si era in tenera età era cosa frequente ed era ancora un gran bel problema. Tralaltro anche la mortalità delle donne durante il parto è ormai ridotta a percentuali marginali. Aspettando altri 300.000 anni potremmo ritrovarci tranquillamente un’allungamento dell’età della procreazione. Ed allora, se la scienza oggi, ci concede la possibilità di anticipare l’evoluzione che male c’è ? C’è solo la gioia di dare un figlio a coppie che magari hanno scoperto l’amore un po’ troppo tardi. O che magari hanno trovato una sistemazione tranquilla e stabile oltre gli “anta” (e questo forse è davvero il vero problema della Società Moderna)"

giovedì 13 gennaio 2011

Aspettando l'esito del voto di Mirafiori

Ho l’impressione che sulla pelle dei poveri lavoratori FIAT, che insieme alle proprie famiglie si auspicherebbero solo una busta paga decente ed una rassicurante prospettiva di futuro, si stia giocando una storica battaglia politica.

Da una parte ovviamente Marchionne che sull’onda del prestigio che si è guadagnato oltreoceano ha deciso di far valere un enorme potere negoziale che né Valletta né Romiti ebbero mai. Si è fatto bene i conti e sa bene di poter fare a meno dell’Italia.
Non è una questione di bilancio quanto piuttosto strategica. La partita delle automobili si gioca ormai a livello planetario. La battaglia si vince in Brasile, India, Cina e Russia. E’ un mercato che non ammette più produttori locali. E per Marchionne, anche se tutti insieme decidessimo domani mattina di non acquistare più FIAT, il  30% del mercato italiano sarebbe comunque sacrificabile rispetto all’esigenza primaria di presenza globale senza cui una FIAT solo italiana finirebbe rapidamente ed inevitabilmente fagocitata.

Il secondo giocatore è un Governo che non penso affatto distratto o assente. E’ piuttosto un governo debole che coscientemente (ed irresponsabilmente) ha deciso di tenersi fuori dalla mischia per evitare di inimicarsi FIAT, Confindustria e i poteri forti e perché questo conflitto in fondo finisce per essere funzionale alla sua sopravvivenza. Divide a sinistra e sposta altrove l’attenzione dei media. E’ un governo opportunista “in tuta mimetica” che sfugge alle sue responsabilità e così guadagna settimane preziose per “consolidare” una traballante maggioranza parlamentare.
Qualsiasi altro governo responsabile, di qualsiasi colore politico, si sarebbe fatto artefice del compromesso e della mediazione, avrebbe saputo ricordare a Marchionne il peso delle proprie responsabilità in un paese che tanto ha dato a FIAT e forse avrebbe fatto di questa occasione l’opportunità di un riassetto generale del mercato del lavoro e dell’intero quadro delle  relazioni industriali e sindacali. Invece il nostro Presidente del Consiglio, nel suo principale intervento pubblico sull’argomento, si è solo limitato a riconoscere la legittimità di FIAT ad investire all’Estero.

Ci sono poi i sindacati. Da una parte quelli che, appiattiti e impauriti, hanno rinunciato del tutto a negoziare. E dall’altra FIOM che sognando un’impossibile seconda giovinezza lotta ad oltranza nella difesa dell’esistente.
E nel mezzo manca un sindacato davvero progressista che, guardando al progresso ed al futuro piuttosto che al passato, si batta per la compartecipazione degli operai agli utili aziendali, tenga assolutamente duro sui diritti di rappresentanza (che Marchionne vorrebbe limitare), sappia negoziare straordinari e pause con il maggiore beneficio economico possibile in busta paga e infine, trovato l’accordo, si ritrovi alleato dell’azienda nella battaglia di comune interesse per la produttività del lavoro e per la lotta all’assenteismo.

Non possiamo nasconderci che assolutamente legittime sono le prerogative di una azienda che è decisa ad investire in Italia, anche disponendo di varie possibili alternative, ma solo a fronte di necessarie garanzie di pieno utilizzo degli impianti e di maggiore flessibilità produttiva.
Dobbiamo saper distinguere tra queste giuste esigenze di competitività e quelle che invece sono inaccettabili restrizioni ai diritti di rappresentanza sindacale.
Dobbiamo superare la logica delle ideologie e del “muro-contro-muro”.
Solo così potremo davvero sviluppare in Italia un terreno fertile all’investimento produttivo, non solo di FIAT ma di tanti altri, ed avviare il magico circolo virtuoso dello sviluppo, dell’occupazione e del welfare sostenibile.

E guardate bene che se tutto questo fosse solo un sogno e domani mattina potessi svegliarmi  in un mondo in cui ancora esiste l’Unione Sovietica, l’Italia è ancora una portaerea strategica nel Mediterrano, la Cina, l’India ed il Brasile ancora così lontane ed irrangiugibili, non avrei nessun dubbio.  Sarei convinto assertore del NO. La FIAT sarebbe costretta a scendere a compromessi. Lo Stato ci metterebbe un bel po’ di soldi. I nostri alleati preoccupati della nostra stabilità politica farebbero un ulteriore sacrificio permettendoci di svalutare ancora un pochettino la nostra liretta ed anche i nostri imprenditori continuerebbero ad exportare tranquillamente i loro prodotti “low cost”.
E saremmo tutti più contenti e contenti.

Purtroppo non sarà così ed allora mi auguro innazitutto che quei lavoratori FIAT, che proprio in queste ore sono stati chiamati ad esprimersi, possano conservare il proprio posto di lavoro. E iniseme a loro i tanti altri dell'indotto che nemmeno possono votare.

mercoledì 12 gennaio 2011

Il grande villaggio globale


da “Il mondo è piatto” di Thomas L.Friedman
“Cosa accadrebbe se le zone del nostro pianeta fossero come i quartieri di una città ? Che aspetto avrebbe il mondo? Io lo descriverei così: l’Europa Occidentale sarebbe una sorta di casa di riposo con una popolazione sempre più anziana amorevolmente accudita da badanti turche. Gli Stati Uniti sarebbero una comunità asserragliata, con un metal detector all’ingresso, un sacco di gente seduta nel proprio giardino a lamentarsi di quanto siano pigri gli altri e, nel muro di recinzione, una piccola apertura attraverso cui passano i lavoratori messicani e altri immigrati pieni di energia che contribuiscono a far funzionare le cose.
L’America Latina sarebbe il quartier dei divertimenti, la zona dei locali notturni, dove la giornata di lavoro non inizia mai prima delle dieci di sera e tutti dormono fino a metà mattina. E’ senza dubbio il luogo dove passare la serata, ma, a parte i night-club, non si assiste all’apertura di nuove attività, a eccezione della strada dove vivono i cileni. In questo quartiere i grandi proprietari non reinvestono quasi mai in loco i loro guadagni, ma li tengono in una banca dall’altra parte della città.
La zona araba sarebbe una strada buia, dove chi non vi abita avrebbe paura a passare, fatta eccezione per qualche via secondaria chiamata Dubai, Giordania, Bahrein, Qatar e Marocco. In questo quartiere le sole attività commerciali sono le stazioni di benzina, i cui proprietari, proprio come le élites del quartiere latino, non reinvestono mai i loro guadagni nella propria area. Molti degli abitanti del quartiere arabo tengono chiuse le finestre e sbarrate  le porte, e davanti all’entrata mettono un cartello con la scritta: “Divieto di accesso. Attenti al cane”.
L’India, la Cina e l'Asia Orientale sarebbero “quelli che vivono dall’altra parte della strada”: il loro quartiere è un grande e fiorente mercato, costituito da minuscoli negozi e piccole fabbriche, fra i quali si trovano istituti tecnici e scuole di preparazione all’esame di ammissione all’università. In questo quartiere non dorme mai nessuno, tutti vivono in famiglie allargate e lavorano sodo, risparmiando per riuscire a passare dalla “parte giusta della città”. Sulle strade cinesi non vige nessuna regola, però sono ben asfaltate, non ci sono buche e i semafori funzionano perfettamente. Su quelle indiane, invece, nessuno ripara i semafori e l’asfalto è in pessime condizioni, ma la polizia fa rispettare le regole con molto scrupolo. Qui, per aprire un chiosco di bibite, ci vuole una licenza speciale ma, per fortuna, i poliziotti locali accettano bustarelle, mentre gli imprenditori di maggior successo possiedono generatori elettrici d’emergenza per fa funzionare le fabbriche e telefoni cellulari sofisticati per ovviare al fatto che i pali del telefono sono tutti caduti. Quanto all’Africa, purtroppo si trova in quella parte della città dove le attività non decollano, l’età media della popolazione scende e i soli nuovi edifici sono gli ospedali.”

In questa bella metafora di Thomas Friedman noi europei viviamo nel quartiere Europa, un “posto” piuttosto piccolo, un tempo cuore pulsante della città ed oggi tranquilla zona residenziale. E’ un quartiere dove si vive ancora bene anche se la sua popolazione, sempre più vecchia, trova crescenti difficoltà a comprendere e seguire i cambiamenti che accadono nel resto della grande metropoli.
La nostra Italia occupa forse solo qualche isolato, un piccolo agglomerato di case. In fondo sono in tanti a considerarla ormai ai margini della globalizzazione se non addirittura in irreversibile declino.
Scopriamo quanto è grande il rischio di restare indietro arrivando a Shanghai, una città che esplode di attività e di iniziativa. Tutto è moltiplicato all’ennesima potenza. Il numero di automobili, il numero di grattacieli, il numero di aziende e soprattutto il numero di cantieri e di gru. E se avessimo il tempo di indagare scopriremmo che lo stesso è per il numero di scuole ed università, ospedali e centri di ricerca.

Abbiamo almeno due buoni motivi per doverci preoccupare di quanto sta accadendo nel mondo. Innanzitutto, pur avendo raggiunto in Occidente, e qui in Italia, un livello di benessere diffuso unico nella storia dell’umanità, abbiamo lasciato indietro tantissimi “altri”, i quattro quinti della popolazione mondiale. Siamo ancora un’eccezione ed intorno a noi la normalità è fatta di povertà, sottosviluppo, sfruttamento e conflitti.
Ricordo le sensazioni di qualche anno fa quando mi è capitato di atterrare a Città del Messico. A vista d’occhio un tappeto quadrettato a colori circonda il centro grigio della città ed il suo piccolissimo nucleo di alti edifici. E’ un tessuto che si arrampica sulle colline e si estende fino all’orizzonte. Per un attimo non riesci a capire di cosa possa trattarsi e poi finalmente realizzi: sono le tettoie delle baracche in cui vive la metà dei 30 milioni di abitanti che popolano la capitale messicana. Sono l’equivalente di molte intere nazioni della nostra Europa.
In quegli istanti ti domandi, condizionato dal nostro mondo, che tipo di economia possa muovere e sostenere quest’altra immensa umanità, di cosa vivono, di cosa si sfamano, che lavori fanno, e poi ti rendi conto che probabilmente e più semplicemente si “arrangiano”, giorno dopo giorno. E’ anche questo il mondo in cui viviamo oggi e non possiamo semplicemente ignorarlo o dimenticarlo.
La seconda ragione per doversi preoccupare di quanto accade “altrove” è che anche chi sia immune da idealismi e sentimentalismi deve riconoscere che una successione di rivoluzioni tecnologiche ha creato un mondo moderno irrimediabilmente interconnesso. Che ci piaccia o meno quello che accade in Vietnam, Messico, Sudan o Afghanistan non è più così lontano e riguarda anche le nostre vite, le nostre economie, la nostra sicurezza e la nostra salute. Può veramente avere ripercussioni sul nostro mondo. Aiutare popoli lontani a risolvere i propri problemi aiuta noi stessi a risolvere anche i nostri.
In un mondo globalizzato alzare muri e barriere e quindi sprangarci e rinchiuderci nel nostro piccolo quartiere di periferia è inutile, oltre che immorale.
Così come sbagliata e irrazionale è qualsiasi paura del cambiamento.
In questi ultimi decenni abbiamo assistito a tanti “sommovimenti” epocali. E’ caduto il muro di Berlino, si è risvegliato il gigante cinese e si sta destando la più sonnolenta tigre indiana, abbiamo scoperto dopo l’11 settembre la grande paura del terrorismo internazionale, abbiamo cominciato a sentire sulle nostre pelli gli effetti della delocalizzazione industriale e dell’immenso potere bifronte della finanza globalizzata. Eppure il mondo è migliore di trenta anni fa. Milioni di persone si sono emancipati dal sottosviluppo e dalla miseria e altre centinaia di migliaia hanno ormai raggiunto standard di vita e aspettative “occidentali”. Certo, questo ci pone innanzi ad altri tipi di problemi sui quali pure dovremo soffermarci ma un uomo inquinato è pur sempre meglio di un uomo umiliato nella povertà.

Partendo da queste premesse, cosa possiamo pretendere di fare per governare la Globalizzazione? Forse molto poco se riflettiamo sul nostro limitato potere di cambiamento. Possiamo di sicuro iniziare a dialogare con tutte le culture. Dalla nostra storia possiamo recuperare esperienze e insegnamenti per tutti i movimenti di sinistra che si sono sviluppati intorno a noi. Così come altrettanto troveremo da imparare. Ancora una volta possiamo liberarci delle nostre paure e ritrovare la speranza in un mondo migliore guardando le cose da tanti diversi punti di osservazione.

domenica 9 gennaio 2011

Comunicato: PD Bussero a Sinistra


PER IL RISPETTO DELLA NOSTRA STORIA
PER IL RIPRISTINO DELLA DEMOCRAZIA INTERNA

                        Siamo un gruppo di cittadini di Bussero, fondatori del Partito Democratico, suoi elettori e taluni anche iscritti, in rappresentanza di tantissimi altri, che in queste settimane ci hanno manifestato il loro forte disagio, presente in tanta parte degli elettori del PD e di Vivi Bussero per le scelte politiche dell’Amministrazione Comunale di modificare gli equilibri della maggioranza .
Cittadini fortemente critici per le scelta di sostituire la maggioranza con l’accordo con la lista  di Progetto Bussero, una lista civica i cui rappresentanti si sono sempre dichiarati  apertamente di destra.  Il tutto senza operare quel chiarimento interno alla lista di Vivibussero che moltissimi all’interno del partito avevano caldeggiato.
Un fatto sconcertante che getta un’ombra sulla forza politica nata invece  per cambiare la politica democratizzandola di più non certamente per rifare pateticamente il verso a concezioni della politica di tipo “sovietico”.
Ciò non toglie ovviamente le molte  responsabilità di Sinistra per Bussero che fin dall’insediamento della nuova amministrazione ha sistematicamente operato per amplificare le contraddizioni in seno alla coalizione, anziché per smorzarle. Ancorché occorresse  che il maggior partito della coalizione, il PD, usasse tutta la propria responsabilità per ampliare e non limitare gli spazi di partecipazione e di collegialità decisionale.
Ma questo continua contrapposizione non puo’, da sola, giustificare lo spezzarsi di un percorso storico unitario tra le varie anime della sinistra e del centro democratico, quasi quarantennale, che ha visto a Bussero prevalere sempre una politica nel complesso di buon governo, di correttezza e legalità istituzionale.
 Siamo elettori democratici preoccupati per tale scelta attivata senza un serio  e preventivo confronto, alla luce dell’approssimarsi di una battaglia elettorale dura e decisiva sulle sorti stesse dell’Italia, che dovrà vedere tutto il centrosinistra unito.
Per tutti questi motivi riteniamo che il PD, debba ricominciare dal basso  avviando  un processo di rinnovamento  della classe dirigente locale.  Unire e non dividere e con l’orgoglio della nostra storia e dei nostri valori.
Ci rivolgeremo, perciò, a tutti gli elettori del Partito Democratico di Bussero. E chi vorrà promuovere con noi l'iniziativa, è il benvenuto.
Dipende da noi, quello che possiamo fare insieme. Quello che insieme faremo perché la democrazia non resti solo sulla carta.


Bussero, gennaio 2011

        Vito Caruso – Carmine D’Agostino – Pietro Di Leo – Paola Ferrari – Enzo Marino – Angelo Noli – Gianfranco Randazzo – Leonardo Scaglioni – Vitaliano Serra – Fabrizio Soru – Maurizio Tuveri – Massimo Vadori

domenica 2 gennaio 2011

Divorzio a Bussero

Cari concittadini di Sinistra,

Scrivo a tutti Voi, qualunque sia la formazione politica cui apparteniate, per condividere l’amarezza di queste ultime settimane.

L’amarezza è ovviamente quella di vedere un’ esperienza, ultra-decennale e coronata dal successo, che sembra ormai conclusa e cede il passo a qualcosa di nuovo, ancora misterioso ed indecifrabile.
Inoltre debbo ammettere che all’amarezza si accostano diversi dubbi perché Vi assicuro che davvero non ho ancora capito che cosa sia realmente successo a Bussero in quest’ultimo mese.

All’inizio, quando è esplosa la bomba, abbiamo scoperto che un capannone doveva essere urgentemente venduto,  assolutamente entro la fine dell’anno. Un sindaco preoccupato in assemblee pubbliche ed incontri privati ricordava la rigida  tirannia del Patto di Stabilità ed evocava la Madre di tutte le Catastrofi: il Commissariamento.

Quando si decide di alienare un bene della collettività ogni cittadino si augura che i propri amministratori operino sempre con buonsenso, prudenza e misura. Se proprio deve essere fatto si punti al massimo beneficio economico possibile; non si svenda trascinati dall’urgenza e dalla necessità; ed ovviamente si faccia il
migliore uso possibile del ricavato della vendita. Esattamente come farebbe ognuno di noi costretto a vendere un prezioso cimelio di famiglia.

Ebbene, ricordiamo che banalmente è solo ed esclusivamente sul prezzo di vendita di questo immobile che è scoppiata la crisi. Da una parte c’era chi invitava a temporeggiare, magari verificando modalità alternative per rientrare nei vincoli del Patto, e dall’altra chi sentendo giustamente propria la responsabilità ultima del Bilancio Comunale arrivava al gesto estremo delle dimissioni.

Da quel momento tra le due componenti della maggioranza è calato il gelo. Le comunicazioni sono state affidate ai volantini, alle dichiarazioni ai giornali ed ai comunicati ufficiali. Malgrado i tanti giorni a disposizione non si è voluto intavolare una vera trattativa. Ognuno nelle proprie assemblee santificava le proprie ragioni: da una parte chi forte dei numeri elettorali esprimeva una ragionevole istanza al rispetto dei ruoli e delle sedi istituzionali, e dall’altra chi esprimeva un’altrettanto sacrosanto diritto alla collegialità. Niente di nuovo sotto il sole, insomma, e potremmo addirittura dire “Democrazia allo stato puro” perché da sempre ogni governo che si rispetti è sempre espressione di una coalizione. Ed in ogni coalizione ci sono sempre componenti maggioritarie e minoritarie. E’ perché il gioco funzioni bastano semplicemente regole chiare, un programma condiviso ed il prestigio e l’autorevolezza di chi è “primus inter pares”.
Ed allora davvero mi domando perché la normale dialettica politica, comune a tutte le Amministrazioni di ieri, oggi e domani, abbia finito per produrre una frattura storica ed epocale nella Sinistra di Bussero.

Fa davvero male pensare a quando tra qualche mese, e davvero me lo auguro con tutte le mie forze, ci troveremo a battagliare per la fine del Berlusconismo, divisi da una invisibile Cortina di Ferro. E sono davvero curioso sull’atteggiamento e sulle posizioni dei nostri nuovi partners.

E con il senno di poi fa ancora più male pensare a quel maledetto e “galeotto” capannone. Non è stato venduto e si è comunque trovata una soluzione al dramma del Commissariamento. Come tralaltro molto candidamente lo stesso assessore al bilancio, in qualche modo, aveva già anticipato nel corso dell’ultimo Consiglio Comunale.

Da una parte è una fortuna ed una gran bella notizia per la collettività perché almeno ci siamo evitati uno spreco. Dall’altra fa riemergere amarezza ed … appunto qualche dubbio.

In conclusione voglio concedermi una speranza. Si dice che “non tutti i mali vengono per nuocere”. Ed allora può darsi che da questo terremoto emergano nuovi modi di fare politica, nuovi momenti di discussione, nuove forme aggregative. Perché malgrado quello che in tanti pensano, esiste ancora un luogo chiamato Sinistra. E vogliamo che quel luogo sia ancora fortemente rappresentato a Bussero.