mercoledì 12 gennaio 2011

Il grande villaggio globale


da “Il mondo è piatto” di Thomas L.Friedman
“Cosa accadrebbe se le zone del nostro pianeta fossero come i quartieri di una città ? Che aspetto avrebbe il mondo? Io lo descriverei così: l’Europa Occidentale sarebbe una sorta di casa di riposo con una popolazione sempre più anziana amorevolmente accudita da badanti turche. Gli Stati Uniti sarebbero una comunità asserragliata, con un metal detector all’ingresso, un sacco di gente seduta nel proprio giardino a lamentarsi di quanto siano pigri gli altri e, nel muro di recinzione, una piccola apertura attraverso cui passano i lavoratori messicani e altri immigrati pieni di energia che contribuiscono a far funzionare le cose.
L’America Latina sarebbe il quartier dei divertimenti, la zona dei locali notturni, dove la giornata di lavoro non inizia mai prima delle dieci di sera e tutti dormono fino a metà mattina. E’ senza dubbio il luogo dove passare la serata, ma, a parte i night-club, non si assiste all’apertura di nuove attività, a eccezione della strada dove vivono i cileni. In questo quartiere i grandi proprietari non reinvestono quasi mai in loco i loro guadagni, ma li tengono in una banca dall’altra parte della città.
La zona araba sarebbe una strada buia, dove chi non vi abita avrebbe paura a passare, fatta eccezione per qualche via secondaria chiamata Dubai, Giordania, Bahrein, Qatar e Marocco. In questo quartiere le sole attività commerciali sono le stazioni di benzina, i cui proprietari, proprio come le élites del quartiere latino, non reinvestono mai i loro guadagni nella propria area. Molti degli abitanti del quartiere arabo tengono chiuse le finestre e sbarrate  le porte, e davanti all’entrata mettono un cartello con la scritta: “Divieto di accesso. Attenti al cane”.
L’India, la Cina e l'Asia Orientale sarebbero “quelli che vivono dall’altra parte della strada”: il loro quartiere è un grande e fiorente mercato, costituito da minuscoli negozi e piccole fabbriche, fra i quali si trovano istituti tecnici e scuole di preparazione all’esame di ammissione all’università. In questo quartiere non dorme mai nessuno, tutti vivono in famiglie allargate e lavorano sodo, risparmiando per riuscire a passare dalla “parte giusta della città”. Sulle strade cinesi non vige nessuna regola, però sono ben asfaltate, non ci sono buche e i semafori funzionano perfettamente. Su quelle indiane, invece, nessuno ripara i semafori e l’asfalto è in pessime condizioni, ma la polizia fa rispettare le regole con molto scrupolo. Qui, per aprire un chiosco di bibite, ci vuole una licenza speciale ma, per fortuna, i poliziotti locali accettano bustarelle, mentre gli imprenditori di maggior successo possiedono generatori elettrici d’emergenza per fa funzionare le fabbriche e telefoni cellulari sofisticati per ovviare al fatto che i pali del telefono sono tutti caduti. Quanto all’Africa, purtroppo si trova in quella parte della città dove le attività non decollano, l’età media della popolazione scende e i soli nuovi edifici sono gli ospedali.”

In questa bella metafora di Thomas Friedman noi europei viviamo nel quartiere Europa, un “posto” piuttosto piccolo, un tempo cuore pulsante della città ed oggi tranquilla zona residenziale. E’ un quartiere dove si vive ancora bene anche se la sua popolazione, sempre più vecchia, trova crescenti difficoltà a comprendere e seguire i cambiamenti che accadono nel resto della grande metropoli.
La nostra Italia occupa forse solo qualche isolato, un piccolo agglomerato di case. In fondo sono in tanti a considerarla ormai ai margini della globalizzazione se non addirittura in irreversibile declino.
Scopriamo quanto è grande il rischio di restare indietro arrivando a Shanghai, una città che esplode di attività e di iniziativa. Tutto è moltiplicato all’ennesima potenza. Il numero di automobili, il numero di grattacieli, il numero di aziende e soprattutto il numero di cantieri e di gru. E se avessimo il tempo di indagare scopriremmo che lo stesso è per il numero di scuole ed università, ospedali e centri di ricerca.

Abbiamo almeno due buoni motivi per doverci preoccupare di quanto sta accadendo nel mondo. Innanzitutto, pur avendo raggiunto in Occidente, e qui in Italia, un livello di benessere diffuso unico nella storia dell’umanità, abbiamo lasciato indietro tantissimi “altri”, i quattro quinti della popolazione mondiale. Siamo ancora un’eccezione ed intorno a noi la normalità è fatta di povertà, sottosviluppo, sfruttamento e conflitti.
Ricordo le sensazioni di qualche anno fa quando mi è capitato di atterrare a Città del Messico. A vista d’occhio un tappeto quadrettato a colori circonda il centro grigio della città ed il suo piccolissimo nucleo di alti edifici. E’ un tessuto che si arrampica sulle colline e si estende fino all’orizzonte. Per un attimo non riesci a capire di cosa possa trattarsi e poi finalmente realizzi: sono le tettoie delle baracche in cui vive la metà dei 30 milioni di abitanti che popolano la capitale messicana. Sono l’equivalente di molte intere nazioni della nostra Europa.
In quegli istanti ti domandi, condizionato dal nostro mondo, che tipo di economia possa muovere e sostenere quest’altra immensa umanità, di cosa vivono, di cosa si sfamano, che lavori fanno, e poi ti rendi conto che probabilmente e più semplicemente si “arrangiano”, giorno dopo giorno. E’ anche questo il mondo in cui viviamo oggi e non possiamo semplicemente ignorarlo o dimenticarlo.
La seconda ragione per doversi preoccupare di quanto accade “altrove” è che anche chi sia immune da idealismi e sentimentalismi deve riconoscere che una successione di rivoluzioni tecnologiche ha creato un mondo moderno irrimediabilmente interconnesso. Che ci piaccia o meno quello che accade in Vietnam, Messico, Sudan o Afghanistan non è più così lontano e riguarda anche le nostre vite, le nostre economie, la nostra sicurezza e la nostra salute. Può veramente avere ripercussioni sul nostro mondo. Aiutare popoli lontani a risolvere i propri problemi aiuta noi stessi a risolvere anche i nostri.
In un mondo globalizzato alzare muri e barriere e quindi sprangarci e rinchiuderci nel nostro piccolo quartiere di periferia è inutile, oltre che immorale.
Così come sbagliata e irrazionale è qualsiasi paura del cambiamento.
In questi ultimi decenni abbiamo assistito a tanti “sommovimenti” epocali. E’ caduto il muro di Berlino, si è risvegliato il gigante cinese e si sta destando la più sonnolenta tigre indiana, abbiamo scoperto dopo l’11 settembre la grande paura del terrorismo internazionale, abbiamo cominciato a sentire sulle nostre pelli gli effetti della delocalizzazione industriale e dell’immenso potere bifronte della finanza globalizzata. Eppure il mondo è migliore di trenta anni fa. Milioni di persone si sono emancipati dal sottosviluppo e dalla miseria e altre centinaia di migliaia hanno ormai raggiunto standard di vita e aspettative “occidentali”. Certo, questo ci pone innanzi ad altri tipi di problemi sui quali pure dovremo soffermarci ma un uomo inquinato è pur sempre meglio di un uomo umiliato nella povertà.

Partendo da queste premesse, cosa possiamo pretendere di fare per governare la Globalizzazione? Forse molto poco se riflettiamo sul nostro limitato potere di cambiamento. Possiamo di sicuro iniziare a dialogare con tutte le culture. Dalla nostra storia possiamo recuperare esperienze e insegnamenti per tutti i movimenti di sinistra che si sono sviluppati intorno a noi. Così come altrettanto troveremo da imparare. Ancora una volta possiamo liberarci delle nostre paure e ritrovare la speranza in un mondo migliore guardando le cose da tanti diversi punti di osservazione.

Nessun commento:

Posta un commento