Ma perché a Sinistra, in tutti questi anni, non si è mai seriamente parlato di Federalismo ?
Chi spesso si trova a viaggiare per lavoro lungo lo stivale scopre presto la bellezza e l’incredibile ricchezza e varietà del nostro paese. E’ una fantastica collezione di ambienti, climi, culture e storie così diverse da far apparire quasi assurdo che si tratti sempre della stessa nazione. Viaggiare da Palermo a Napoli, da Roma a Firenza, da Bologna a Milano, da Torino a Venezia, ed anche solo da Trento a Bolzano, è come attraversare tanti invisibili confini. Cambiano accenti e dialetti, la cucina e le tradizioni, i colori, i modi di fare e le abitudini. Cambiano addirittura le aziende e così cambiano gli enti pubblici. Diverso è il rapporto tra colleghi, con i superiori, con i clienti e con i fornitori; diverso è il rapporto tra cittadini ed amministratori.
Se la diversità è ricchezza, l’Italia è uno dei paesi più ricchi al mondo ed in effetti, anche se assolutamente sprovvisti di risorse naturali e costretti a dipendere quasi esclusivamente dall’estero, siamo stati benedetti in quanto a folclore, bellezze storiche, artistiche, culturali e naturali.
Ma la diversità può portare terribili sciagure quando non è solo varietà etnica, folcloristica e gastronomica ma anche differenza nei modelli di sviluppo, nella ricchezza pro-capite e nella sostenibilità economica di medio-lungo termine. La Storia ci insegna che è possibile tenere insieme una nazione solo se stabili, equilibrati e sostenibili sono i flussi e gli interscambi economici tra le sue parti.
In Italia per tanti anni questo non è accaduto. In realtà non è stato nemmeno necessario farlo. Per decenni siamo stati esonerati dal dover affrontare seriamente il problema delle differenze tra Nord e Sud in virtù degli equilibri geo-politici internazionali. Dopo il secondo conflitto mondiale siamo stati salvati prima dal boom economico e successivamente da un “salvacondotto monetario”. L’Italia si venne a trovare in una posizione strategica invidiabile, cerniera tra Ovest ed Est, al centro del Mediterraneo e con un forte partito comunista e per questo ci furono concesse dagli alleati periodiche e salutari svalutazioni della lira. Le aziende del nord furono capaci di svilupparsi all’estero mentre all’interno concedevano Scala Mobile e Contingenza; il Sud era utile serbatoio di manod’opera. In pratica svalutazioni ed inflazione garantivano competitività internazionale e pace sociale e, con il vantaggio di una moneta debole, ci si poteva permettere anche una spesa pubblica di maniche molto larghe. Era iniziata l’epoca di Pantalone.
Negli anni Ottanta il meccanismo va in ebollizione quando l’inflazione raggiunge percentuali insostenibili. Alla lunga dinamiche salariali automatiche ed aumento del prezzo del petrolio indeboliscono la competitività del paese. Le svalutazioni continuative non sono mai una soluzione quando si deve sia vendere che comprare all’estero. E’ proprio allora che l’inflazione uccide il futuro di una nazione.
Inizia una fase nuova in cui finalmente si riesce a bloccare la deriva inflazionistica, non senza sanguinose battaglie ideologiche a Sinistra; le svalutazioni non sono più desiderabili e ci sono concesse con maggior difficoltà. Di fronte al rallentamento della crescita la tranquillità sociale è adesso finanziata dal debito pubblico. L’intervento dello Stato deve crescere a dismisura soprattutto al Sud che non riesce più ad esportare mano d’opera in eccesso. E’ la terribile spirale che ci consegna l’Italia di oggi. Il premio Nobel per l’economia Paul Krugman ci insegna che “ci sono tre cose che chi si occupa di economia desidera per il proprio sistema economico. La prima è la discrezionalità nella politica monetaria, così da poter combattere le recessioni e ridurre l’inflazione. La seconda è tassi di cambio stabili, così che i mercati possano operare in un clima contraddistinto da una non eccessiva incertezza. La terza, infine, è la liberalizzazione degli scambi internazionali […]. Quello che ci insegna la storia del globo è che le nazioni non possono raggiungere contemporaneamente tutti e tre questi obiettivi: al massimo possono raggiungerne due”. E’ evidente che non volendo assolutamente rinchiudersi in un regime autarchico ed avendo scelto la stabilità dei cambi, si lasciavano i tassi di interesse in balia dei mercati. Un debito pubblico sempre più ampio poteva essere rifinanziato a tassi sempre più alti. Così facendo si scaricava sul futuro il peso del debito e contemporaneamente con alti tassi di interessi si inibiva la propensione agli investimenti delle aziende italiane e se ne uccideva la competitività.
A questo punto della storia l’“era di Pantalone” si è definitivamente chiusa. Contemporaneamente crolla il muro di Berlino e l’Italia si ritrova un po’ più periferia. Un sistema economico a due e più velocità non è più sostenibile né con l’inflazione, né con le svalutazioni e nemmeno con un super-indebitamento. E’ il momento di fare i conti e le alternative sono essenzialmente tre: un fallimento di tipo “argentino”, la disgregazione o una riaggregazione. Proprio in quegli anni esplode il fenomeno della Lega. E proprio in quegli anni la sempre fortunata Italia trova il suo ennesimo Jolly: Mastricht e l’Euro. Con grandi sacrifici e qualche artificio contabile entriamo nella moneta unica, ci assicuriamo stabilità finanziaria e monetaria e guadagnamo tempo prezioso per riportare sotto controllo il debito pubblico, recuperare efficienza nell’amministrazione centrale, e in quelle periferiche, e soprattutto recuperare il differenziale di competitività tra Nord e Sud.
Ci siamo salvati ma non siamo completamente al sicuro. Siamo costretti a mettere ordine nei conti e rispettare gli stringenti obblighi comunitari.
Purtroppo questo tempo prezioso è andato totalmente sprecato. Anche la Sinistra quando ha governato è stata assolutamente incapace di riconoscere la centralità della questione del Federalismo. Non si tratta solo di riconoscere le istanze di “autogoverno” del popolo della Padania. E’ molto di più. Significa introdurre elementi di efficienza, di responsabile amministrazione e controllo locale nei meccanismi della Spesa Pubblica, che abbiamo appena visto storicamente inclini allo spreco. In un sistema-Nazione che ha definitivamente perso il controllo della leva dell’indebitamento, che deve ancora recuperare un significativo gap di competitività nel settore privato - ma soprattutto pubblico - e che deve finalmente correggere gli squilibri tra le sue aree di eccellenza e di arretratezza, la risposta più efficace non può che essere una profonda riforma in senso federale.
E sarebbe un bene innanzitutto per il Sud la cui malattia è stata solo aggravata da un assistenzialismo “a pioggia”. Federalismo fiscale e piena autonomia di spesa responsabilizzerebbero maggiormente proprio le classi politiche e gli stessi elettori meridionali; permetterebbero di sperimentare ed individuare soluzioni locali ai problemi locali, dalle politiche occupazionali alla sanità, da scuola e ricerca alla salvaguardia dell’ambiente. Complessivamente aiuterebbero in maniera molto più efficace a mantenere i conti dello Stato sotto controllo. Un Sud che ha paura del Federalismo è un Sud che ha paura di se stesso.
La spinta centrifuga della Lega è stata solo temporaneamente ibernata dal Berlusconismo. Quando questa fase si sarà chiusa, è destinata a riesplodere in forme ancora più gravi se fin a quel momento non si saranno fatti passi in avanti.
Chi si auspica che l’autonomismo padano sia un fenomeno passeggero sottovaluta le fratture economiche e sociali che percorrono la nostra penisola. Se vogliamo salvaguardare nel lungo periodo l’Unità Nazionale, abbiamo assolutamente bisogno di una riforma in senso modernamente federale dello Stato. Una riforma che trasferisca importanti responsabilità di gestione amministrativa alle Regioni pur mantenendo un altrettanto forte potere centrale di controllo, coordinamento e riequilibrio.
Ed allora ripeto: perché a Sinistra, in tutti questi anni, non si è mai seriamente parlato di Federalismo ?
Nessun commento:
Posta un commento